L’oggetto di questa riflessione è come accade ormai da molto tempo, o meglio, da quando la stazione Quattro Venti è stata inaugurata, lo spazio aperto annesso e limitrofo alla stazione stessa.
Questo spazio, seppur degradato, seppur nato senza un progetto, senza arredo, senza un piano di gestione, ancora insoluto, con una ciclabile e un percorso che finiscono contro un muro e infrequentabile nelle ore calde dei mesi estivi attrae gli interessi di tutti. Interessi di ogni tipo.
Appena inaugurato è stato preso d’assalto dagli abitanti, bambini in testa ed è divenuto immediatamente il luogo di incontro degli abitanti delle due parti di Monteverde Vecchio che erano rimaste divise per quasi venti anni ossia da quando il vecchio e stretto ponticello che le univa, del quale l’unica traccia è ormai la semplice targa sul muro, venne chiuso e demolito.
Oltre a chi la pratica nel proprio tempo libero c’è anche chi la guarda, chi la osserva stupito chiedendosi perché uno spazio così spoglio attragga tante persone, chi invece con rassegnazione pensa che questo sarà un nuovo spazio del quale si approprieranno costruttori vari per realizzare centri commerciali, supermercati e parcheggi. Poi c’è chi si sdegna (giustamente) per lo stato di abbandono, o meglio, per il fatto che proprio l’abbandono e il degrado stiano ora divenendo l’alibi per usi impropri e privati come quello del parcheggio.
Però tanto interesse (da parte degli abitanti) unito a tanto degrado fa sorgere una domanda: di chi è questo spazio? Con questa domanda non mi sto interrogando se tale aree appartenga alle Ferrovie o al Comune ma se appartenga o meno agli abitanti di Monteverde ossia se questi la sentano come propria e se e quale sia l’immagine, la visione che essi hanno di questo pezzo di terra nel futuro.
Di solito accade, e sta avvenendo a Magliana, così come a Cinecittà e come in altri quartieri romani, che gli abitanti guardino per anni le aree degradate interne al proprio quartiere e poi all’improvviso cubature spropositate cadono dall’alto senza che gli abitanti possano più fermarle pur essendo consapevoli che questo ridurrà gli spazi comuni a disposizione e aumenterà la congestione.
Il problema, secondo me, sta nel fatto che si tende ad affidare a un corpo di specialisti il compito di sondare e leggere il futuro. Si consegna il potere a uomini politici e a tecnici che promettono di costruire il futuro del nostro ambiente di vita. Si ottiene così una separazione sempre maggiore tra la sfera della competenza tecnica delle professioni e la sfera della vita quotidiana.
Questa separazione porta alla cancellazione delle esigenze dei cittadini.
Bisogna però, allo stesso tempo constatare che la persona non vive di soli beni e servizi, ma della libertà di modellare gli oggetti che gli stanno attorno, di conformarli al suo gusto, di servirsene con gli altri e per gli altri. Nei Paesi ricchi, i carcerati dispongono spesso di beni e servizi in quantità maggiore delle loro famiglie, ma non hanno voce in capitolo riguardo al modo in cui le cose debbano essere fatte, né diritto di interloquire sull’uso che se ne fa. Questo è ciò che sta avvenendo a noi abitanti della città moderna: siamo degradati al rango di consumatori-utenti allo stato puro, siamo liberi di servirci di ciò che ci viene detto essere utile a noi e alle nostre famiglie ma siamo privi della reale possibilità di scelta sul cosa vogliamo e come debba essere fatto.
Qui entra quindi in gioco la questione della bellezza della città introdotta da Lara nello scorso numero. Penso che proprio come il concetto individuale di utilità di un bene si basa su un fondamento oggettivo, cioè sulla sua capacità di soddisfare bisogni inerenti alla natura umana, così il concetto individuale di bellezza di un bene dipende da una prerogativa altrettanto oggettiva: la capacità dell’oggetto di espletare la funzione inerente alla sua forma: una gru non può essere un buon cucchiaio. D’altra parte qualsiasi forma in grado di svolgere la funzione ad essa assegnata ha, quanto meno, gli elementi essenziali per essere ritenuta bella.
Ciò che manca a questo luogo è capire quale sia la sua funzione e questo, secondo me, è un compito che spetta, come diritto e come dovere, agli abitanti stessi. Gli elementi ancora in embrione che lo costituiscono sono: uno spazio verde che si snoda lungo un percorso pedonale e ciclabile e un abbozzo di piazza.
Iniziamo a ragionare su questi elementi che mi è sembrato, parlando con le persone e leggendo questo giornale, siano elementi condivisi e che tutti coloro che hanno a cuore l’interesse comune, e non quello personale del parcheggio delle proprie auto, auspicano che diventino belli e che accrescano la qualità del quartiere.
Innanzi tutto direi che un percorso è tale se ha un’entrata e un’uscita quindi a mio parere si dovrebbe per prima cosa aprire uno sbocco dalla parte della circonvallazione. Cosa che non sarebbe nemmeno difficile se ci si accordasse con i proprietari della limitrofa strada privata per aprire un varco ciclo-pedonale all’estremità dalla parte della circonvallazione.
Una volta consentito tale passaggio sarà il via vai stesso delle persone a garantire il controllo sociale dell’area. Rimane però un problema di gestione dello spazio che se degradato non invoglia tale passaggio. Parlo di problema di gestione perché è mia opinione che né le ferrovie né il comune abbiano le forze per curare un’area così vasta ed è proprio quando questo forza manca che si richiede l’intervento dei privati. Allora sorge una seconda domanda: ma perché quei privati non possiamo essere noi abitanti? Abbiamo gli stessi, se non più diritti di chiunque altro e uno scopo a mio avviso più alto: non più un interesse legato ad un profitto privato ma un interesse collettivo.
Una proposta interessante può essere quella di realizzare un community garden, cioè di uno spazio verde attrezzato, di cui già da tempo esistono esperienze europee (alcune anche italiane) e americane, che ha l’obiettivo di aumentare la qualità e la fruibilità collettiva di uno spazio verde, tramite la realizzazione, in modo collettivo e condiviso, di servizi ed attività aperte al pubblico, destinate al quartiere e connotate da forti fini sociali. I community garden sono iniziative autopromosse dagli abitanti di un quartiere per il riutilizzo di parti abbandonate del quartiere: brani di aree ferroviarie, lotti interclusi, pezzi di verde ridotti a discarica e sono serviti a costruire nuovi spazi pubblici, a produrre ortaggi, ad integrare e valorizzare le diverse culture in contesti spesso multietnici.
L’esperienza più eclatante è quella di New York, dove esistono oggi più di 750 community gardens,
totalmente autogestiti dai cittadini. Molti giardini sono oggi in pericolo, attaccati da progetti di sviluppo e difesi strenuamente dagli abitanti. Un community garden può contenere al suo interno più attività e servizi come ad esempio:
• L’orto-giardino comunitario, comprensivo di frutteti, gestito da tutti i cittadini interessati a praticare in modo collettivo l’orticoltura per autoproduzione e la coltivazione di fiori per svago e fruibile a tutti i cittadini.
• Il giardino multifunzionale, dotato di boschetti, pergolati, piazzole per picnic dotati di barbecue, forno a legna ed aree cucina per cucinarsi da soli, pergolati, giardini fioriti, giardini odorosi, giardini sensori (per non vedenti), piazzole per attività artistiche libere e gratuite (concerti acustici, cori, readings di poesia, teatro, danza, esposizione di sculture, feste, recite scolastiche, arte da strada, ecc..).
• La scuola all’aperto, che comprende spazi come laboratori dedicati all’autoproduzione (pannelli solari termici, fai-da-te, ciclofficina, erboristeria, preparazione di cibi, ecc…), all’artigianato ed all’arte, piazzole per l’insegnamento all’aperto dedicato alle scuole ed autogestito dagli insegnanti e per workshops teorico-pratici di educazione alla sostenibilità.
• La piazzetta del mercato, dedicato a piccoli mercati temporanei degli agricoltori biologici dell’area (“farmer’s markets”), mercato dei fiori, mercati del commercio equo e solidale, mercati del
riuso e del riciclaggio, mercati del baratto, ecc..
Questa è un’idea e sicuramente non l’unica. Ognuno di noi certamente ne ha una e forse proprio questo dovremmo fare: immaginare come vorremmo che fosse il nostro quartiere nella sua totalità e nelle sue parti e poi magari ragionare insieme delle varie nostre visioni e di come poterle realizzare. Sarebbe molto interessante portare avanti questo tema magari, tra gli altri, anche con le scuole.
Chiara Ortolani (pubblicato sul numero di aprile 2008 di Qp)