E’ bello che questo giornale sia veicolo di idee, di riflessioni; sarebbe bello se diventasse anche promotore di iniziative di carattere "comune". Leggevo su "Carta" un intervento di Ulderico Pesce il quale sostiene che ormai il termine "pubblico" ha fatto il suo tempo e che ora bisognerebbe parlare di "comune": “Ciò che è comune è patrimonio nostro, non ciò che è pubblico.”[1] Mi è rivenuto in mente leggendo l’articolo di Chiara Ortolani sull’ultimo numero di Quattropassi. Il discorso sulla BELLEZZA ha molto a che fare con quanto Chiara afferma rispetto alla capacità della cittadinanza di appropriarsi di un luogo e farlo proprio. Altrimenti, spazi come quello della stazione Quattro venti rischiano di diventare "nonluoghi", senza significato, in attesa che intervengano davvero le autorità e i tecnici ad assegnare una loro non-identità. A questo proposito si potrebbe pensare di proporre e/o riproporre un sondaggio ai cittadini di Monteverde, rivolgere loro la domanda: "Di chi è questo spazio? Lo senti tuo? Cosa ci faresti, Come te lo immagini?" Sarebbe anche un modo di sfidare e sollecitare la fantasia delle persone, proprio perché non possiamo limitarci a essere semplici consumatori. Un primo passo, come una consultazione "di base" da strutturare in forma di interviste o di questionario, per poi arrivare a una tavola rotonda di quartiere in cui le idee dei cittadini siano prese in considerazione per decidere cosa fare di quest’area, come appropriarsene. Ma poi bisognerebbe pubblicarne i risultati, farli circolare in modo da stimolare altre proposte. Questa è un’idea. Un’altra sarebbe quella di sollecitare i cittadini ad appropriarsi dello spazio da subito, mettendo in campo le idee senza aspettarsi ed attendere le soluzioni dall’alto, realizzando nel concreto iniziative autogestite: un sasso nello stagno, in attesa che si producano le onde che dal centro si propaghino ai margini. Mi chiedo se sia possibile che il Comitato di quartiere organizzi davvero questo sondaggio, che organizzi davvero una tavola rotonda in modo tale che le varie voci si incontrino e discutano dal vivo "di chi è questo spazio", valutando le idee finora emerse, come quella del community garden.
Chiara ha ragione: il problema non è di chiedersi se l’area sia del Comune o delle Ferrovie, è fuorviante. Piuttosto la questione è di chiedere se ognuno di noi, che lo attraversiamo lo viviamo e lo osserviamo, lo senta suo e gli attribuisca un significato. Magari intorno a quest’area, che sta cercando un’identità piena di senso, si potrebbe creare un laboratorio attivo e reale per apprendere "la gestione partecipata". La città è piena di luoghi senza identità, senza un nome. Dovremmo tornare tutti un po’ bambini e assegnare un nome alle cose e non solo: attribuirgli un’intenzione. Forse così riusciremmo a scoprire il vuoto e il nonsenso di tanti spazi che tuttavia frequentiamo, assuefatti come siamo. Ma io, forse proprio per via del mestiere che “faccio”, credo nelle possibilità e nelle potenzialità dei luoghi. Un’aula scolastica è il concentrato della spersonalizzazione, dello squallore e della freddezza. Muri sbiaditi sporchi e banchi malandati. Poca luce spesso e pochissimo spazio per i movimenti. Ma poi succede che nella relazione con i bambini assegni un significato profondo, affettivo, a quelle quattro mura. Non puoi derogare, delegare ed aspettare. Il lavoro svolto insieme nella quotidianità del fare trasforma gli spazi. Le azioni educative ( e i cittadini devono educare la città) non sono mai neutre, sarebbe pericoloso. Così i luoghi, gli spazi “comuni”, non dovrebbero mai essere ingenui. Comunicano e trasmettono un loro preciso messaggio. Aspettano che gli si dia un senso, agendo.
Iara Ciccarelli Dias,maestra elementare